«Impegno estremo o a casa!»
Questa la minaccia di Elon Musk ai dipendenti di Twitter a cui ha chiesto, oltre l’aumento delle ore di lavoro nei prossimi mesi, la fine dello smart working.
Seconda prova di forza nel giro di poco tempo, dopo la mannaia dei settemila licenziamenti operati al momento dell’acquisizione del social network.
La reazione non si è fatta attendere: nel giro di poche ore almeno cinquecento – se non mille – dei tremilacinquecento dipendenti rimasti hanno deciso di lasciare.
Com’è potuto succedere? Cosa rappresenta quest’esodo così massiccio da una delle aziende, fino a ieri, più appetibili al mondo?

Il caso Twitter si inserisce in un fenomeno partito proprio negli Stati Uniti in corrispondenza della pandemia e chiamato Great resignation.
Durante il lockdown, costretti a casa, molti lavoratori hanno avuto il tempo di mettere a fuoco la loro condizione occupazionale. E sono emerse delle negatività che, fino a quel momento, non avevano mai considerato pensando di non avere alternative:
– il disallineamento tra valori individuali e quelli aziendali;
– lo stile assolutistico di leadership di certi capi;
– lo sbilanciamento sul lavoro rispetto alla qualità della vita personale;
– gli orari rigidi;
– lo spreco di tempo nel tragitto casa-lavoro;
– poca meritocrazia, specialmente nelle grandi aziende;
– mansioni, ruoli, retribuzioni non rispondenti alle aspettative.

Nei giovani, inoltre, si sta sempre più diffondendo la filosofia «YOLO» (you only live once, si vive una sola volta).
Motivo per cui, se un lavoro non mi piace, lo cambio.
Risultato? Dimissioni di massa, a tutti i livelli.
Il fenomeno si è allargato a tutto il pianeta ed è arrivato anche in Italia: nel primo semestre 2022 gli abbandoni del posto di lavoro hanno superato il milione con un aumento di oltre il trenta per cento rispetto allo stesso periodo del 2021.
E anche chi non si dimette non nasconde malcontento e insoddisfazione.
E le aziende come hanno reagito?
Governate da dirigenti cinquantenni e sessantenni, provenienti da una formazione fatta da regole fisse, da un orientamento rivolto all’efficienza e alla performance, da un’abitudine al sacrificio della vita privata in nome della professione, le organizzazioni hanno inizialmente ricercato le cause all’esterno(reddito di cittadinanza, l’alto costo della vita nelle grandi città, la svogliatezza dei giovani lavoratori etc).
Ma, indagando più a fondo, si sono ricredute convincendosi che questa nuova fase post pandemica sia caratterizzata dalla ricerca di un maggior equilibrio tra vita privata e lavoro.
Così, le imprese illuminate, stanno mettendo in atto una serie di contromisure per arginare il fenomeno:
- iniziano ad ascoltare le persone chiedendo cosa poter dare in più rispetto alla canonica retribuzione;
- rimodellano lo stile di leadership dei capi che spesso non riescono nemmeno a percepire le pretese dei giovani di poter gestire il loro tempo;
- creano condizioni di lavoro flessibili più coerenti con i bisogni delle persone;
- rispettano l’equità di genere e i meccanismi di attivazione delle diversità e dell’inclusione sociale;
- superano la concezione delle aziende come macchine per produrre verso una nuova visione fatta di comunità di persone unite da emozioni e destini comuni;
- danno un senso al lavoro assecondando passioni e vocazioni di ognuno;
- ripensano modelli di governance e welfare che possano incontrare la propensione etica e solidale dei nuovi lavoratori.
Probabilmente siamo giunti a un punto di non ritorno: il passaggio da una gestione egocentrica e verticistica a quella inclusiva e comunitaria, «l’economia del noi», dove solo le aziende che lo capiranno potranno prosperare.
Fabio Columbano
Fonte: Il Corriere della sera
“A me interessa solo che le persone siano felici. E capisco quando lo sono perché le conosco: le ho scelte, volute, ascoltate”
(S. Campara – CEO Golden Goose)